Il territorio: le trasformazioni compatibili e non compatibili

A cura del Prof. Giuliano Bellezza

Trattando di trasformazioni del territorio compatibili o non compatibili occorre porsi una domanda preliminare: la compatibilità viene valutata rispetto a cosa? Se il riferimento è l'interesse privato, immediato nel tempo, vengono in mente numerosi provvedimenti, quali, per esempio, la disposizione con cui la Regione Sicilia ha inaugurato il terzo millennio, volta a sanare migliaia di costruzioni abusive sulle coste: più compatibile di così con l’interesse di chi ha costruito non è possibile.

Di conseguenza, e per quanto anch’esso equivocabile, ritengo preferibile usare il termine “sostenibile”, aggettivo che nell’accezione oggi comune non è riferito solo al miglioramento delle condizioni di vita di una comunità umana, ma chiama in causa l’ambiente o, meglio, l’ecosistema in cui essa è collocata. In tale accezione la sostenibilità diventa argomento di relazione fra uomo e territorio, cioè di quel che è l’oggetto di studio principale per i geografi.

Per salvaguardare l’ambiente planetario in cui viviamo occorre ritrovare un equilibrio tra uomo e natura: un equilibrio esistito a lungo e che ha retto quasi perfettamente fino alla rivoluzione industriale. Fino a quel tempo l’attività produttiva umana di gran lunga prevalente era l’agricoltura e il modo di produzione industriale non esisteva ancora; il primo dei fisiocratici, Patrick Aine, considerava la produzione agricola come un dono gratuito della natura. Con questo intendeva che l’uomo poteva utilizzare tutto il prodotto agricolo senza con questo diminuire la produzione seguente; l’uomo, quindi, veniva considerato totalmente (direi: naturalmente) inserito in questo ciclo. Un genere di vita che viene condotto ancora oggi in alcune parti del mondo, ovviamente le meno attraenti per il mondo occidentale (salvo brevi periodi di attraversamento da parte di viaggiatori “avventurosi”).

[Fig. 1] I Masai sono una popolazione composta da gruppi nomadi o seminomadi dell’Africa orientale; nella foto una donna, vicino a una capanna di un villaggio temporaneo, scruta gli stranieri. Le strutture abitative sono estremamente povere, molto più basse degli abitanti, e costruite con un graticcio di arbusti e ramoscelli secchi, tenuti insieme con fango e il tetto è fatto principalmente di paglia; in entrambe le strutture funge da legante e impermeabilizzante lo sterco delle vacche. La sopravvivenza è garantita dagli animali, che spesso dormono insieme con gli uomini nelle “case”.

Fig. 1
Fig. 2

[Fig. 2] Un gruppo di donne Masai, all’ingresso di uno dei loro villaggi temporanei; tutte ostentano vistose collane. Questi villaggi sono più o meno circolari, con uno spiazzo interno nel quale vengono riparati gli animali. Per la maggior parte del tempo questi stanno al pascolo brado, sorvegliati dai maschi adulti, che passano lunghi periodi lontani dalle famiglie. Questo genere di vita è una delle forme più naturali di utilizzazione dell’ambiente, che infatti non viene deteriorato. La densità di popolazione si mantiene inferiore a un abitante per chilometro quadrato.

[Fig. 3] I maschi adulti che non sono in grado di portare al pascolo gli animali, come questo anziano cieco, svolgono altri incarichi per la comunità: oggi si può trattare di andare al prossimo paese per comprare un sacco di un qualche cereale povero; i due bastoni sono un simbolo di comando, la posizione delle gambe di entrambi è considerata di “riposo in piedi”. I maschi validi debbono sempre essere pronti a difendere famiglie e animali dagli animali feroci, pur se questo evento è ormai diventato assolutamente eccezionale; in ogni caso, a portare i carichi sono comunque le donne.

Fig. 3
Fig. 4

[Fig. 4] La principale forma di utilizzazione dell’ambiente iperarido era il trasporto a fini commerciali tramite carovane: un uso oggi in estinzione, per la insostenibile concorrenza dei camion sulle piste. Ora i dromedari sono allevati per carne, latte, pellame, feltro. Senza alterare l’ambiente, i nomadi sahariani (o delle regioni artiche) hanno un rapporto di 20 a 1 tra calorie ricavate come alimento e calorie spese come lavoro umano.

[Fig. 5] In questa stalla europea ogni vacca produce da 10 a 20 volte più di quelle del Sahel, ma le calorie alimentari ricavate sono solo un paio di volte superiori a quelle spese per produrre e mantenere le attrezzature automatiche, oltre a quelle necessarie per nutrire i bovini.

Fig. 5
Fig. 6

[Fig. 6] La più diffusa tenda dei nomadi era la cosiddetta “tenda nera”, di lana e feltro di dromedario, ma col tempo si sono utilizzati i materiali scartati dagli occidentali. La foto è stata scattata a El Aaiun, nel Sahara occidentale: le costruzioni nello sfondo erano acquartieramenti della legione straniera dei colonizzatori spagnoli.

[Fig. 7] Alcune popolazioni nomadi (questi, in particolare, nel Sudan) usano tende con un’intelaiatura semirigida trasportabile, come questa caricata su dromedari: rimontarle è così una questione di pochi minuti.

Fig. 7

Sempre analizzando la produzione agricola, Ricardo avrebbe basato la sua teoria della rendita economica sul concetto di una diversità dei suoli, basandosi sulla loro differente fertilità. Quasi contemporaneamente, Adam Smith chiarì, nella sua teoria del valore-lavoro, che il lavoro umano non è un dono gratuito della natura, e che quindi nelle varie produzioni il suo costo doveva essere preso in considerazione. Ancor meno disposto ad ammettere doni gratuiti era Marx, che annetteva al lavoro umano un’importanza fondamentale. si possono vedere Le attività agricole estremamente differenziate che vengono praticate nel mondo contemporaneo sono i testimoni sincroni dei millenni di evoluzione tecnica del settore.

[Fig. 8] L’ampia regione centrale del Sahara (tra Algeria, Libia, Mali, Niger, Ciad e Sudan) è ancora in parte a disposizione dei nomadi. Nella foto un campo coltivato sviluppato presso il letto asciutto di uno uadi, ma qualche metro al di sopra: il fondo di questo, infatti, può venire percorso senza alcun preavviso né alcuna ciclicità da una massa d’acqua provocata da una pioggia verificatasi molti km a monte. Il fenomeno dura pochi minuti, bastanti per distrugge tutto al suo passaggio.

Fig. 8
Fig. 9

[Fig. 9] Pure nella zone di ancor maggiore aridità c’è chi utilizza l’ambiente sahariano a fini agricoli: il campo coltivato (Algeria meridionale, vicino al confine col Niger) è stato rigorosamente diviso in appezzamenti di qualche m² e completamente cintato con cespugli spinosi, per evitare che vi entrino gli animali. L'ambiente è stato in qualche modo modificato, ma può agevolmente sostenere questo tipo di utilizzazione. Il campo è un po’ distante dal fondo dello uadi: le piene inaspettate, meno frequenti che nello uadi della immagine precedente, possono capitare anche qui, in qualsiasi momento dell’anno e senza preavviso.

[Fig. 10] Nel campo dell’immagine precedente l’acqua viene portata a mano con piccoli contenitori, estraendola da un pozzo scavato nel letto asciutto di uno uadi: per quanto venga centellinata, si vedono i bianchi depositi salini, determinati dall’evaporazione. Anche l’asportazione di questi viene fatta a mano.

Fig. 10
Fig. 11

[Fig. 11] Attorno all’area coltivata delle immagini precedenti vivono quasi stabilmente poche decine di persone, alcune molto mobili, altre praticamente sedentarie; alcune abitazioni del luogo, quindi, sono quasi permanenti, realizzate con paletti in qualche modo fissati al suolo (granitico) e coperte con quel che si riesce a trovare.

[Fig. 12] Un’altra abitazione, questa più “tenda”della precedente, ma molto “personalizzata”: a differenza di quelle nomadi, ogni famiglia sedentaria caratterizza in qualche misura la propria abitazione. Cosa poco conosciuta da noi, forse l’animale più utile per l’uomo che adotta questo genere di vita è l’asino.

Fig. 12
Fig. 13

[Fig. 13] Il pozzo scende per molti metri, proprio nel fondo dello uadi, dove l’umidità si conserva più a lungo. Un asino attende che qualcuno versi un po’ d’acqua nel mezzo bidone adibito ad abbeveratoio.

[Fig. 14] L’immagine è riferita ad un nuovo insediamento, all’interno della Tunisia, nel quale l’acqua arriva con una tubatura a uno pseudo pozzo: è interessante notare come la forma realizzata sia quella del pozzo tradizionale, quella del tempo in cui la gente vi si radunava attorno al tramonto, quando il calore si attenuava e si attingeva al termine della giornata di lavoro. Oggi la gente non si raduna più, perché ci si è abituati a usare l’acqua più spesso; quando serve, qualcuno va e apre il rubinetto: il pozzo non svolge quasi più una funzione sociale.

Fig. 14
Fig. 15

[Fig. 15] Spesso l’intervento dell’uomo moderno non è compatibile né sostenibile. Nel deserto occidentale egiziano (qui siamo nell’Oasi di Kharga) negli anni ’70 per trovare l’acqua si sono compiute trivellazioni simili a quelle del petrolio, fino a 1000/1200 metri di profondità: pur non essendo salata come quella marina, quest’acqua lo è molte volte più di quella che chiamiamo dolce. Dopo millenni di scarsità, nei campi ne è stata immessa troppa, e la forte evaporazione ha ricoperto di sale i terreni: per eliminare il sale i fellahin inondavano di nuovo il campo, e ispessivano ulteriormente la crosta salina. Molti campi, spesso faticosamente coltivati fin dall’antichità, hanno dovuto essere abbandonati.

[Fig. 16] In questo ambiente molto arido i tecnici occidentali avevano pensato solo a portare acqua, senza preoccuparsi di canali di deflusso e smaltimento. In tal modo a volte è successo che siano stati coperti di croste saline i campi appena preparati per nuove colture, senza averli praticamente mai coltivati: l’esempio è preso nell’Oasi di Dakhla.

Fig. 16
Fig. 17

[Fig. 17] Dopo aver portato acqua negli anni '70 ignorando l’evaporazione, nei successivi anni '80 l’impegno dei tecnici è stato quello di come portarla via prima che evaporasse: si sono dovuti scavare canali di 5/6 metri al di sotto della superficie topografica, facenti capo a una depressione artificiale da cui, tramite una stazione di pompaggio, l’acqua viene mandata a disperdersi nel deserto.

[Fig. 18] Un insediamento temporaneo in Tunisia, nello Sciott ed Gerid la grande pianura in buona parte coperta da croste saline; è qualcosa di analogo ai maggenghi delle Alpi: luoghi dove sostare qualche giorno durante i trasferimenti, in questo caso per chi conduce le mandrie di ovini, caprini e dromedari che stagionalmente traversano lo Sciott.

Fig. 18
Fig. 19

[Fig. 19] In Asia gli agricoltori hanno sviluppato al massimo la padronanza nella regolamentazione delle acque e acquisito una incredibile capacità di reimmettere nel terreno tutto quel che ne è stato ricavato: non a caso troviamo qui le produzioni agricole che da più tempo coltivano le stesse varietà sugli stessi campi. L’immagine mostra una risaia terrazzata che occupa il fondo di una valle nella piovosa isola indonesiana di Sumbawa.

[Fig. 20] Altrettanta capacità hanno dimostrato gli asiatici per sviluppare la cultura del riso, quella che permette la maggiore capacità di nutrimento per l’uomo, anche in zone meno favorevoli: la foto mostra una risaia non permanentemente inondata in Nepal, a oltre 2000 metri di altezza sulle pendici himaliane.

Fig. 20
Fig. 21

[Fig. 21] In Vietnam, a nord di Hanoi: gli agricoltori coltivano con la stessa capacità, e generalmente in modo cooperativo, prodotti (in questo caso orticoli) ormai destinati principalmente al mercato urbano, e solo marginalmente all’autosussistenza.

[Fig. 22] Nel nord semiarido della Cina l’area coltivata è stata molto ampliata al tempo delle Comuni agricole; milioni di agricoltori erano straordinariamente fieri di lavorare, forse ancor più di prima, ma su una terra sulla quale non erano più in condizione di semischiavitù, ma erano diventati proprietari collettivi.

Fig. 22
Fig. 23

[Fig. 23] Dalle “residenze universitarie”, dove alloggiano alcuni docenti e studenti dell’Università di Urbino, si apre verso mare il panorama sul paesaggio agricolo dell’Italia centrale, che conserva tuttora l’impronta della mezzadria: tratti residui di copertura forestale, insediamento sparso, campi di modesta estensione, grande varietà di colture sia erbacee che arboree, e quindi produzioni a diversi stadi di maturazione. Una trasformazione del territorio considerata esemplare più che compatibile, ma non esemplare dal punto di vista della redditività economica, che imporrebbe superfici medie aziendali decine di volte superiori.

[Fig. 24] Le piantagioni impiantate su vaste superfici ottengono i migliori risultati economici, date le elevate rese medie per ha. Il terreno, però, viene straordinariamente impoverito, e va costantemente reintegrato con fertilizzanti artificiali: pur se questi hanno un costo relativamente basso, per avviare una piantagione occorre disporre di capitali ingenti. A Zanzibar le piantagioni di canna da zucchero vennero impiantate inizialmente dagli inglesi, dopo l’indipendenza passarono in buona parte in proprietà e gestione a indiani (che gli inglesi avevano fatto venire dall’India come lavoranti): negli anni ‘70 il Governo ha praticamente costretto gli indiani a venderle, perché venissero gestite da africani (consigliati da cinesi), e sono occorsi anni per tornare ai livelli produttivi precedenti.

Fig. 24
Fig. 25

[Fig. 25] Piantagione sperimentale di soia in Kansas: per controllare i risultati di diverse tecniche, i vari settori sono diversamente irrigati e fertilizzati; inoltre la sommità di gran parte delle piante viene coperta per impedirne l’impollinazione non controllata.

Nel frattempo l’industria cominciava ad acquistare maggiore efficienza e importanza nell’attività umana complessiva. Rispetto a Smith o Ricardo che la vedevano come artefice positivo del grande avanzamento, un centinaio di anni dopo di loro, e un centinaio di anni prima di noi, William Jewons cominciò a far notare che l’industria produce anche rifiuti. Se vogliamo fare il conto complessivo di quanto avviene nella realtà, dobbiamo aggiungere anche questi rifiuti tra i valori negativi; tuttavia questa obiezione, che è di 120 anni fa, è stata sempre troppo signorilmente ignorata dalla scuola economica neoclassica. I rifiuti e gli scarti inquinanti, di conseguenza, si sono accumulati a un punto tale che non è stato più possibile fingere di ignorarli: si trovano ovunque, manifestandosi spesso in maniera assolutamente imprevista (dalle piogge acide, all’aumento dell’anidride carbonica, alla lacerazione della fascia dell’ozono stratosferico). Rispetto ai tecnocrati, tesi ad affermare che la tecnologia porrà rimedio a tutto, la parte d’umanità più sensibile alle variazioni dell’ambiente è consapevole di vivere in un’incertezza, per di più accresciuta da un altro fenomeno denunciato ormai dagli anni ’70. Dalla pubblicazione da parte del Club di Roma del volume su “I limiti dello sviluppo” (1972), si è cominciata a diffondere la sensazione che le risorse presenti nel pianeta non sono illimitate. Molti allarmismi del tempo sono risultati indubbiamente esagerati, ma tuttavia rimane una certezza: le riserve prima o poi finiranno davvero. L’esaurimento delle risorse e l’accumulo di rifiuti inquinanti sono in sinergesi, perché non è possibile attingere dalle prime senza poi scaricare da qualche parte gli altri.

[Fig. 26] La foto presa sulla costa atlantica degli Stati Uniti risale ai primi anni ’60, quando pure nei Paesi più avanzati le industrie potevano inquinare impunemente.

Fig. 26
Fig. 27

[Fig. 27] Il centro siderurgico di Bagnoli quando, negli anni ’80, era tra i quattro maggiori d’Italia: le ciminiere erano ormai strutturate in modo che ne uscisse solo vapore d’acqua, mentre tutte le particelle solide (fuliggini diverse) erano “abbattute” dai filtri. Questo genere di costi aggiuntivi, considerati indispensabili in un ambiente completamente urbanizzato, hanno reso sempre meno competitiva la produzione; negli anni ’90 la si è definitivamente abbandonata, determinando ingenti costi sociali, in termini di disoccupazione. Oggi l’area è stata destinata a spazi pubblici ricreativi e culturali.

[Fig. 28] Nei Paesi avanzati il paesaggio industriale alla fine del secolo XX aveva ben poco in comune con quello del secolo precedente, quando gli impianti erano in piena città e i fumi delle ciminiere variavano dal nero, al giallo, al rossastro. Nell’immagine un impianto produttivo automobilistico della Toyota in Giappone, installato oltre la periferia urbana, tra campi ancora coltivati, senza dispersione di fumi inquinanti.

Fig. 28
Fig. 29

[Fig. 29] L’attività produttiva si è spostata dai Paesi avanzati verso quelli del Terzo Mondo (espressione poco precisa, ma indubbiamente molto pratica), dove però, pur se lentamente, le tematiche ambientali cominciano a venire prese in considerazione. Tra quelli che hanno registrato i maggiori miglioramenti economici figura il Brasile, che ricava energia elettrica più che dai combustibili (inquinanti, senza remissione) dall’abbondantissima acqua dei propri fiumi. Nella foto si vede in fase di lavorazione avanzata la diga di Itaipù, sul fiume Paranà, tra Brasile e Paraguay. Come si vede, l’ambiente viene comunque aggredito pure quando si realizzano centrali idroelettriche per produrre energia ufficialmente compatibile e non inquinante.

Proviamo a considerare il tema dell’inquinamento in un contesto ecologicamente più preciso, tenendo conto anche del fattore tempo: l’agricoltura è un flusso ad andamento circolare, che si ripete costantemente a scala cronologica umana. Però, a questa scala (la nostra, è bene ripetere) per quanto riguarda l’attività mineraria non si può parlare di flusso circolare: nei secoli, e anche nei millenni, è un flusso lineare solo in perdita, in quanto perché si riformi una quantità utilizzabile di minerali e combustibili fossili occorrono decine di milioni di anni.

La produzione industriale è più complessa e sfavorevole: si tratta di un processo che per l’approvvigionamento delle materie prime minerarie ed energetiche deve fare i conti con la loro impossibile ricostituzione in tempi “umani”, mentre per quanto riguarda i rifiuti la ricaduta sull’ambiente è immediata. La maggioranza dell’opinione pubblica dei Paesi avanzati è ormai dell’opinione che sia necessario intervenire per una maggiore salvaguardia dell’ambiente, ma non sembra incline a ridurre il proprio livello di consumi. Contemporaneamente nei abitanti dei Paesi poveri, dove la maggior parte della popolazione ha problemi di semplice nutrimento sufficiente, è difficile che venga percepita l’esistenza del problema.

[Fig. 30] L’evoluzione della siderurgia costiera europea dopo la seconda guerra mondiale è un caso esemplare di trasferimento a lunga distanza di processi produttivi inquinanti. I grandi produttori (Regno Unito, Germania, Belgio, Francia) avevano i maggiori impianti direttamente sui giacimenti carboniferi, ma negli anni seguenti, un po’ per esaurimento di questi un po’ per la diminuzione dei costi di trasporto marittimo, il carbone è stato prima importato da giacimenti esteri, poi rapidamente sostituito con il petrolio, sempre importato via mare. Problemi di inquinamento hanno poi indotto le imprese a spostare nei Paesi del Terzo Mondo anche la produzione materiale di acciaio, sia per la presenza di mano d’opera meno cara, sia per le legislazioni ambientali quasi inesistenti. A rimanere nei Paesi avanzati è restata solo la finitura dei prodotti, in pratica la parte meno inquinante dei cicli produttivi.

Fig. 30
Fig. 31

[Fig. 31] Ultimamente nel Senato degli USA il Presidente, texano con interessi nel petrolio, è stato accusato di aver scatenato la guerra in Iraq nell’interesse delle industria petrolifera, che è fortissima nel Paese. L’immagine, presa nel piazzale in cui sorge il Parlamento dell’Oklahoma, dimostra quanto questa industria abbia profonde radici nel mondo politico. Molti stranieri rimangono allibiti vedendo una trivellazione della compagnia Philips in funzione davanti all’ingresso principale: informandosi si viene a sapere che quando negli anni ’30 il Parlamento accolse la domanda della compagnia, il suo Presidente si chiamava Philips. E tuttavia gli USA sono un Paese liberale che favorisce la concorrenza tra le imprese: nell’ampio parcheggio sul retro si può rimanere nuovamente perplessi vedendo in azione le pompe di altre due diverse società.

Sottolineando che si tratta di un’opinione personale, non credo possibile che l’umanità possa proseguire sull’attuale modello di sviluppo, ufficialmente chiamato “consumismo” ma in effetti basato nel mondo occidentale su due pilastri inseparabili: lo spreco da parte di tutti e una incessante propaganda, assolutamente indispensabile: è il solo modo per indurre la gente a comprare beni che assolutamente non servono, se non al profitto di chi li produce. La soluzione è un compito quasi immane: si tratta di riuscire a realizzare uno sviluppo che non alteri irrimediabilmente l’ambiente. Occorre convincere i consumatori (in effetti, gli “sprecatori”) dei Paesi come l’Italia che tutti possono ridurre il proprio livello di spreco, senza alcuna diminuzione della propria qualità di vita. Naturalmente, sarà decisivo il comportamento degli oltre 281 milioni di abitanti censiti nel 2000 negli USA: meno del 5% della popolazione mondiale, che consuma circa un terzo delle risorse utilizzate annualmente sul pianeta. Purtroppo già venti anni fa il Presidente Reagan (1980-88) ha detto di non prendere nemmeno in considerazione per i propri votanti una qualsiasi diminuzione del livello di vita (leggi: consumi, sprechi); l’argomento è stato ribadito, pur se in toni più sommessi, dal suo successore, Bush senior (1988-92). Clinton (1992-2000) ha evitato di prendere posizioni nette, ma il suo successore, Bush junior (2000-…) ha già fatto dichiarazioni più esplicite di quelle di Reagan.

[Fig. 32] In alcuni casi l’acqua è più che sufficiente, e la popolazione di Varanasi (Benares) ne usufruisce per lavarsi senza limitazioni, anche più volte al giorno; dal punto di vista igienico, lo spettacolo comunque lascia piuttosto sconcertati gli occidentali.

Fig. 32
Fig. 33

[Fig. 33] Il caso di Varanasi è il più noto in occidente, ma nell’Asia monsonica lavarsi, per così dire, sul marciapiede è la assoluta normalità: la foto presa di prima mattina a Bandjermasin nell’isola di Borneo (Indonesia) mostra come chi è riuscito a superare l’infanzia ha anche sviluppato una dotazione di anticorpi decisamente efficiente.

[Fig. 34] La ricerca della privacy è più sentita di quella relativa a una maggiore igienicità: le abitazioni non hanno un bagno interno, e chi ha una qualche disponibilità può fare i propri bisogni non all’aperto, ma in appositi gabbiotti ormeggiati sul fiume sotto casa.

Fig. 34
Fig. 35

[Fig. 35] Questa immagine presa nelle Filippine dimostra come il vero problema sorga quando una stagione è poco piovosa e i corsi d’acqua sono troppo in magra (qualcosa di paragonabile può eccezionalmente succedere a Venezia: l’odore dei canali asciutti è decisamente sgradevole)..

[Fig. 36] Al Cairo di acqua nel Nilo ce n’è sempre (e dalla costruzione della grande diga di Assuan la portata non è quasi soggetta a variazioni); la popolazione la usa in ogni modo possibile, e per milioni di abitanti si tratta di una immensa lavanderia.

Fig. 36
Fig. 37

[Fig. 37] Nelle regioni iperaride, quali il Sahara occidentale, è normale vedere dromedari ed esseri umani uniti alla sorgente.

[Fig. 38] Nelle regioni iperaride, quali il deserto indiano del Rajastan, è normale che donne e bambine dedichino da due a sei ore al giorno per portare a casa un po’ d’acqua.

Fig. 38

In Italia viene spesso citata una mitica “casalinga di Voghera”, completamente influenzabile dalla propaganda televisiva, per la quale il dramma esistenziale all’inizio del terzo millennio sta in: velina mia nipote quindicenne o velona io? Chiedendo scusa a tutte le casalinghe, di Voghera e del resto del mondo, sicuramente il grado di influenzabilità degli esseri umani da parte della propaganda diminuisce al crescere del loro livello culturale. Per superare l’odierno modello di sviluppo basato sullo spreco (si cambiano scarpe, automobili o televisori ben prima che vi si noti un minimo accenno di consumo) occorre soprattutto aumentare il livello culturale medio: non a caso gran parte della programmazione televisiva, tra una serie di spot e l’altra, sembra puntare al risultato opposto.

[Fig. 39] All’inizio del terzo millennio le centinaia di milioni di bambini costretti a lavorare dovrebbero costituire una delle maggiori vergogne del mondo avanzato, se questo fosse degno della definizione: i suoi abitanti, però, guardano tranquillamente da un’altra parte. Come nell’immagine precedente siamo in Rajastan, e alcuni dei bambini che nella foto portano pietre per sistemare una strada potrebbero essere fratelli delle bambine che nell’altra portavano l’acqua verso casa.

Fig. 39
Fig. 40

[Fig. 40] Situazione già migliore quella delle bambine egiziane che portano carichi di arance dall’aranceto in cui vengono raccolte al posto in cui verranno pesate; il lavoro di pesatura è riservato a maschi adulti: le donne in genere, giovani o adulte, stanno in casa, e probabilmente non saprebbero usare la bilancia né leggere i numeri.

[Fig. 41] Ancora in Egitto, non si può dire che nelle classi sociali povere i maschi nascano già privilegiati: quelli che nella foto precedente pesano le arance avevano probabilmente cominciato come il bambino della foto, spargendo letame sui campi.

Fig. 41
Fig. 42

[Fig. 42] In Cina il periodo di Mao è stato segnato da eccessi che nelle fasi più acute della rivoluzione culturale (1967-68) hanno avuto conseguenze molto negative proprio per i beni culturali presenti (ma il movimento era estremamente diversificato: in qualche caso sono state le giovanissime Guardie Rosse a portare in luce reperti archeologici). D’altro canto, in una generazione si è compiuto un passo sostanziale, istituendo scuole per tutti gli innumerevoli bambini, eliminando l’analfabetismo dal Paese.

[Fig. 43] Nei Paesi africani, ancor più poveri di quanto fosse la Cina degli anni ’60, gli Stati non hanno ancora oggi i mezzi per garantire l’istruzione. In queste condizioni una grande opera di alfabetizzazione viene ancora svolta dai missionari, con mezzi che sarebbe già eufemistico definire spartani.

Fig. 43
Fig. 44

[Fig. 44] Dove le grandi città sono coinvolte, anzi travolte, da uno sviluppo troppo rapido, le differenze sociali si dilatano all’inverosimile. In una discarica di Manila un bambino verrà probabilmente sgridato, perché invece di cercare scarti in qualche modo utilizzabili perde tempo per guardare un album di fumetti.

[Fig. 45] Una immagine che può suscitare pensieri contraddittori: fanno bene alcuni giovani australiani di buona volontà a dedicare il proprio tempo per cercare di insegnare a leggere e scrivere ai bambini nelle riserve in cui sono praticamente confinati gli aborigeni ? Fatalmente insegnando la cultura propria in qualche modo la stendono su quella locale, occultandola fino a eliminarla totalmente. In Italia può essere interessante vedere che i giovani australiani propongono ai bambini aborigeni anche il testo di Pinocchio.

Fig. 45

I fenomeni di globalizzazione portano ineluttabilmente con sé una omogeneizzazione culturale che in pochi settori risulta evidente come nell’architettura. In molte immagini si è visto come, anche in ambienti simili, le costruzioni umane riflettessero la diversità delle culture. Oggi in tutto il mondo la varietà cede il posto a un’architettura standardizzata su alcuni modelli occidentali, per qualche decennio ispirati a una razionalità modernista per la quale un edificio poteva essere ministero delle poste a Nairobi, ospedale a Helsinki, multiproprietà in montagna o qualsiasi cosa in qualunque parte del mondo; successivamente ha preso sempre più spazio la sconvolgente eterogeneità stilistica della postmodernità. Costituendo una struttura quasi ermeticamente separata dall’esterno, in entrambi i casi l’edificio ha sempre meno relazioni con l’ambiente in cui è inserito, e non solo dal punto di vista naturale: fuori dal mondo occidentale, si stanno perdendo le relazioni con l’ambiente culturale, strettissime fino a una generazione fa. Ci si preoccupa, giustamente, della diminuzione del pool genetico di flora e fauna, e si fa molto meno attenzione alla ancor più rapida diminuzione del pool culturale dell’umanità: dal canto mio, ritengo che questa sia la “distrazione” più incompatibile, insostenibile e irresponsabile di cui il mondo occidentale si stia macchiando.

[Fig. 46] La piazza è il luogo della socialità del mondo mediterraneo: nell’immagine, un lato della piazza centrale di una piccola cittadina toscana, Massa Marittima.

Fig. 46
Fig. 47

[Fig. 47] Il centro originario di una città media delle Marche: Urbino, dominato dalla mole del Palazzo Ducale.

[Fig. 48] Si può dire che in tutte le culture umane si è teso a sottolineare con una tensione verso l’alto l’importanza, divina o terrena, degli edifici: nella immagine, l’ingresso al Palazzo ducale di Urbino.

Fig. 48
Fig. 49

[Fig. 49] I molto più scarsi materiali a disposizione hanno generato nella “cattedrale di fango” di Djenné (Niger) forme caratteristiche che pur se diverse da quelle dell’immagine precedente, in qualche modo le ricordano.

[Fig. 50] Le abitazioni del centro storico di Sutri, come quelle di molti altri insediamenti del Viterbese, sembrano svilupparsi spontaneamente dal tufo con cui sono costruite.

Fig. 50
Fig. 51

[Fig. 51] A poche decine di km di distanza da Sutri, Tuscania è circondata dalle mura di tufo di (questo eruttato dai Monti Vulsini), poggianti su una colata di lava proveniente dallo stesso apparato vulcanico..

[Fig. 52] Lo spiazzo centrale di Bagno Vignoni si sviluppa attorno a vasche realizzate in epoca medievale attorno alle sorgenti termali usate fin dai tempi preromani.

Fig. 52
Fig. 53

[Fig. 53] Gli edifici di Pietrasecca, nell’Appennino abruzzese, sono costruiti con il calcare su cui sorge l’abitato. In primo piano un cavalcavia dell’autostrada, tecnicamente ineccepibile, ma indubbiamente pesante come inserimento nel paesaggio.

[Fig. 54] Palese, cittadina vicina a Bari, dove il recente sviluppo si basa sul turismo balneare: dal punto di vista architettonico si caratterizza sostanzialmente per non avere alcuna caratterizzazione. Esemplare da questo punto di vista l’architettura della chiesa e del campanile, che può fare tranquillamente a meno delle campane, sostituite da ben meno costosi altoparlanti.

Fig. 54
Fig. 55

[Fig. 55] L’edilizia sviluppatasi in Brasile in riva al mare a Santos lascia perplessi sulla sua sostenibilità in senso letterale, dato che i grattacieli incredibilmente fitti sorgono direttamente sulla sabbia; il bacino di utenza si estende, ben oltre il mezzo milione di abitanti della città, ai 16 milioni dell’area metropolitana di San Paulo.

[Fig. 56] Brighton, città inglese sulla Manica, si sviluppa in gran parte con le classiche casette monofamiliari, quasi tutte con il giardinetto sul retro (backyard).

Fig. 56
Fig. 57

[Fig. 57] La zona centrale del Cairo, dove il “verde urbano” non esiste nemmeno concettualmente. Solo negli ultimi tempi gli anonimi edifici moderni hanno superato in altezza i minareti, dai quali ormai anche i muezzin sono costretti ad aiutarsi con gli altoparlanti: se non altro, però, il loro richiamo alla preghiera è sempre fatto a voce, in diretta.

[Fig. 58] A Roma una convenzione impone di non superare in altezza la cupola di San Pietro, ma i “sacri palazzi” vengono tuttavia sempre più circondati da edifici che ne diminuiscono il carattere unico. Tra gli anni ’50 e ’70, peraltro, per un buon ventennio molta di questa attività edilizia è stata realizzata da una società immobiliare gestita dal Vaticano, su terreni spesso appartenenti a enti ecclesiastici..

Fig. 58
Fig. 59

[Fig. 59] Nella periferia di Roma, zona Corviale, è sorto un edificio lungo un chilometro, dove si voleva realizzare il concetto dei “falansteri” di Le Corbusier. Nel progetto questa sorta di piramide della modernità doveva ospitare una comunità, e questa doveva diventare autosufficiente all’interno per tutti i servizi, ai quali era destinato un intero piano; la pessima organizzazione e le lentezze burocratiche hanno fatto sì che tutto quel piano (decine di migliaia di m²) fosse rapidamente occupato da famiglie senza casa. Col tempo questi abusi di necessità sono stati condonati, e l’intero immenso immobile è rimasto privo di strutture di servizio, costituendo il più grande mostro urbano della capitale; solo la buona volontà di alcuni tra gli abitanti, tenta di realizzare un minimo di organizzazione sociale.

[Fig. 60] La zona centrale di dove ? Giakarta, Lagos, Caracas, Helsinki, Seattle ? Sottolineare la risposta esatta (che, a scanso di equivoci, è la prima).

Fig. 60
Fig. 61

[Fig. 61] Capillarmente distrutta negli anni ’50 la Corea ha dovuto essere totalmente. Negli anni ’80 la capitale del nord, Pyongyang, rispettava i canoni del realismo socialista, realizzandoli con prefabbricati in parte provenienti dall’Europa orientale; le strade avevano l’ampiezza di quelle della allora tuttora esistente URSS, ma il traffico era limitato ai soli pedoni..

[Fig. 62] Seoul, capitale della Corea meridionale, ha invece seguito i canoni della modernità statunitense; nel 2000 la città è traversata da una serie di autostrade urbane e il traffico automobilistico sta sugli standard dei Paesi più sviluppati. Nulla richiama l’esistenza di una qualche cultura locale (che pure ha circa 4000 anni di antichità).

Fig. 62
Fig. 63

[Fig. 63] Dove la miscela stilistica postmoderna raggiunge il maggiore parossismo è attualmente il Vietnam, in particolare a Ho Chi Min Ville, la ex Saigon; un febbrile ininterrotto traffico di motorini scorre sotto edifici dei quali si cura solo il fronte strada: lateralmente nessuna apertura, in quanto in breve alle pareti laterali si appoggeranno altri edifici, assolutamente aderenti o con uno intervallo nel quale un uomo riesce a passare solo a malapena.

Fondamenti culturali

L'autore

Prof. Giuliano Bellezza

Docente Ordinario di Geografia nell’Università della Tuscia a Viterbo, ha partecipato ai Gruppi di lavoro dell’Unione Geografica Internazionale sulle Regioni Aride e, attualmente, in quello sulla Geografia della cultura. Da luglio 2003 è direttore della Home of Geography a Roma, sede permanente della Unione Geografica Internazionale.

Ha organizzato per l’UNICEF corsi universitari sull’Educazione allo Sviluppo e collabora con il Ministero, la Società Geografica Italiana, l’Associazione Geografi Italiani e la Associazione Italiana Insegnanti di Geografia per l’organizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti e tutors.

Oltre a vari testi scolastici, ha pubblicato risultati di ricerche svolte in varie parti del mondo, sulle relazioni tra Terzo Mondo e imprese multinazionali, sulla crisi ambientale degli anni ’30 nel sud-ovest degli Stati Uniti.

Ultimamente ha pubblicato un volume su “Geografia e Beni Culturali” e sta realizzando un Sistema Informativo sui beni culturali nella Tuscia.

Le fonti

  • Piccola bibliografia di riferimento:
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    • Bettini V. et al., Elementi di ecologia urbana, Torino, Einaudi, 1996
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  • Le immagini sono tratte da:
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